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Pip Carter Lighter Maker - Western Civilization


La pervadente voglia di passato che ha caratterizzato gli ultimi 10 anni della storia della musica pop, fra revival e contro-revival, è finalmente giunta al paradosso finale: il finto vintage. Usare le più moderne e avanzate tecnologie per fare il verso al passato, come se la genuinità e la (presunta) maggiore qualità dell’arte di un tempo fosse riproducibile soltanto guardando alla forma, ignorando la sostanza. Come per i 700 euro di telefonino (più il costo dell’applicazione) per fare fotografie già sbiadite con: polvere digitale che dona autorevolezza. Come per la chillwave, il genere musicale anche detto “hypnagogic pop” che riprocessa suoni di modernariato per creare un pastiche musicale vagamente originale: la bassa fedeltà come scopo finale, non più come naturale conseguenza di una spontaneità che non si fa ostacolare dalla scarsità di mezzi. Ci sarebbe bisogno di una psicoanalisi collettiva per tutta la gioventù del 2012 ma non è questa la sede adatta.

Tutto ciò che si può dire al momento è che almeno i Pip Carter Lighter Maker da Modena non ci prendono in giro, non peggiorano le cose. Non ci vengono a dire di essere una ventata d’aria fresca per poi deluderci. I Pip Carter Lighter Maker non ci vengono a dire un bel niente: semplicemente suonano e godono suonando per i cazzi loro. Ma chi sono questo Pip Carter Lighter Maker? … Appunto!
Non lo so manco io: il loro myspace è stato aggiornato eoni fa (anzi si fa beffa dei suoi visitatori riportando un video di Justin Bieber) e sul resto di internet le informazioni e le recensioni son davvero minime. So solo che sono in giro da anni e hanno pubblicato già diversi dischi ma non hanno fatto molto per pubblicizzarsi. Non importa perché per la musica che offrono va bene così. I Pip Carter Lighter Maker rievocano un mondo che non esiste più, un mondo di fanzine stampate male e cassette autoprodotte, un mondo che internet ha cancellato, un luogo della mente, un posto che una volta era una tappa obbligata ora esiste solo per una scelta più o meno masochistica: il mitico underground.
I Pip Carter Lighter Maker perciò sono fuori moda e fanno musica fuori moda ma quel che più conta è che sono onesti: si capisce che lo fanno per se stessi, solo per stare bene, principalmente a livello spirituale dato che a livello pecuniario non credo ne ricavino molto. La cosa buona è che fanno stare bene anche chi ha la fortuna di scoprire le loro musiche che non inventano nulla ma affascinano con tanta maestria, rigore filologico e un citazionismo che più che essere una menata fine a se stessa è un tributo a tutto ciò che amano: il Morricone degli spaghetti western (“Nightbird Lifes”), il brit-indie ritmato e dal sapore polveroso di Far West dei Last Shadow Puppets (“Italian Song 69”), il funk dei film noir anni ’70 (“For Birth or Pleasure”), le tastiere dei Doors di “Hello, I Love You” e “Light My Fire” (“Did Man Invent God”), il morbido country dei Wilco (“Long Time Gone”), il rock psichedelico che si trasforma in progressive a cavallo fra anni ’60 e ’70 (la title track), qualche sperimentazione rumorista un po’ autoindulgente come si faceva all’epoca (“Like a Cosplay”) e così via. Cose già sentite molte volte ma qui rielaborate con la passione e la sicurezza di chi non deve dimostrare nulla a nessuno se non cosa significhi “suonare di gusto”: avete presente il vostro stomaco che brontola mentre guardate Terence Hill che mangia pasta e fagioli col cucchiaio di legno in “Lo chiamavano Trinità”? Ecco questo disco fa la stessa cosa con le vostre orecchie solleticandole con solidi motivetti che agganciano l’attenzione dell’ascoltatore e lo invogliano a un riascolto attento e generando un suono ruvido che più che definibile come “lo-fi” è semplicemente essenziale, sincero, senza fronzoli e senza la pretesa di apparire fico. E perciò inevitabilmente lo è anche, fico dico.

“Western Civilization” è forse uno dei migliori dischi rock di maniera prodotti in Italia proprio per questo suo essere vero, artigianale, sano, senza coloranti, senza aromi, incontaminato e underground, dunque vicino al suono “senza tempo” cui si ispira. Perciò questa più che una vera recensione è un appello accorato alla band: ok, siete bravi, autentici e non ve la tirate manco un po’ – grazie davvero – ma ora anche basta. Ne vogliamo di più: diteci dove ascoltarvi, scaricarvi, comprarvi, vedervi e amarvi (ma non in modo fandomico e bimbominkiesco) e non costringeteci a barcamenarci in una scena impetuosa dove è la luccicanza delle forme ad attrarre, più che il contenuto: c’è pervadente voglia di futuro qui, facciamo che sia la musica semplicemente buona a farlo.

 

Francesco De Paoli  SHIVER WEBZINE
 


Recensione 22 April 2011
Pip Carter Lighter Maker

 

 

Pip Carter Lighter Maker – Western Civilization (autoprodotto, 2011)

Pip Carter Lighter Maker – TheNightmareBeforeTheDayAfter (autoprodotto, 2010)
Pip Carter Lighter Maker – Candy ep (autoprodotto, 2009)
Pip Carter Lighter Maker – s/t (autoprodotto, 2008)

Sorpresa. Chi sono questi Pip Carter Lighter Maker? Onestamente non saprei rispondere nemmeno dopo averli ascoltati e avere cercato un po’ in Rete – sono italiani, forse modenesi, si sono formati 5-6 anni fa. Quello che so, invece, è che questi tizi si sono autoprodotti un tot di cd (autoproduzione hard, ma di classe: non i cd-r della Verbatim a 10 euro al pacco, con le copertine fotocopiate; ma neppure i cd stampati in fabbrica e tipografia… quella via di mezzo un po’ bohemienne e stilosa dei cd-r con le copertine stampate col computer su cartone pesante e i cd-r masterizzati, ma con la stampa sul dorso), questi tizi sanno il fatto loro e questi tizi sembrano una band anglosassone in odore di botto, pur non essendo affatto anglosassoni.

La parola d’ordine è psichedelia – in particolare nei due cd che più mi sono piaciuti nel lotto, ovvero Western Civilization e l’omonimo Pip Carter Lighter Maker – ma l’anima della band è anche fortemente pop. Attenzione, però… parliamo del pop Sixties, quello raffinatamente artigianale, quella forma d’arte che ha plasmato (non dimentichiamolo) le prime leve del punk rock settantasettino e le vecchie guardie del garage rock.
Forse sarò banale, ma ascoltando i due cd di cui sopra ho pensato ai Pink Floyd, a Syd Barrett e ai Velvet Underground, il tutto un po’ più ripulito e laccato, con una punta di modernità britpop (che emerge prepotentemente – rendendo un filo più commerciale il sound – in TheNightmareBeforeTheDayAfter e nell’ep Candy). Per fare un discorso più generale, pensate ai Brian Jonestown Massacre in trip più barrettiano/beatlesiano e con un’aura meno tossica, sporca e nichilista. Anzi, diciamo pure che nel suo essere psichedelica, la musica dei PCLM è molto solare e rimanda a immagini di giornate passate a rosolare al sole in un campo, ben pieni di birra e di oppiaceo. O di caro vecchio acido lisergico, se mai se ne trovasse ancora in giro.

Misteriosi? Forse. Fuori moda? Di sicuro. Ma geniali e filologici da far paura. Consigliati – a meno che non abbiate necessità di violenza sonica a livello costante: in quel caso, meglio che vi rivolgiate altrove.

PS: un curioso dettaglio… dei quattro cd recapitati, almeno tre sembrano usati; la superficie su cui passa la lente del lettore è infatti tutta graffiata e macchiata come accade ai cd che vengono lasciati in giro e maltrattati. Chissà che storia hanno. Magari banalissima, magari bizzarra. Chi lo sa… e per una volta è bello così.

 

 

Andrea Valentini (BLACK MILK MAGAZINE)

Recensione Western Civilization

31/07/2012

In anni di viral marketing, social network e uffici stampa in tuta mimetica e Uzi, un gruppo che annovera più dischi che recensioni sul web fa indubbiamente notizia. Rincariamo la dose: mentre scrivo, i Pip Carter Lighter Maker, che nascono nel 2005, hanno una pagina Facebook con due soli fan fan. Io non mi sono ancora aggiunto, aspetto la fine di questa recensione. Ma lo farò di certo, se può servire a diffondere il verbo di questi ragazzi modenesi che tanto si curano della musica e poco della promozione.Comincio a dire che “Western Civilization”, l’album di cui parliamo, non è recentissimo, risale a due anni fa. Ad ogni modo, risulta essere l’ultimo lavoro della band e lo prenderò dunque come riferimento, nell’impossibilità (a livello di tempo e non di intenzioni) di recensire l’intera discografia dei PCLM (che però potete ascoltare integralmente senza muovervi da queste pagine).In apertura dell’album le parole dell’intramontabile film “Il mio nome è nessuno” ci introducono al suono del gruppo emiliano, il cui ingrediente principale è la psichedelia della seconda metà degli anni Sessanta. Più che i soliti noti di sponda inglese - leggi Pink Floyd-, Pip Carter e compagni ricordano maggiormente quei gruppi oscuri (che so, i Poets, gli Attack) che ormai è possibile rintracciare solo su qualche compilation da mercatino dell’usato e su youtube, grazie a qualche inguaribile filantropo. Ma i pezzi di questo disco rimescolano anche gli Stones, periodo “Aftermath”, i Tomorrow e i Troggs , con Nick Cave e tanto tanto altro.Ogni tanto qualche rimando un po’ più esplicito viene fuori: la chitarra di Robby Krieger in “Did man invent God?” o lo standard di “Take 5” in “French meaning”, ad esempio. E l’intro con la voce di Henry Fonda non è l’unico tributo dei Pip allo spaghetti-western: lo omaggiano ancora con la splendida “Italian song 69”, col suo riff morriconiano che vi troverete a fischiettare appena premuto il tasto pause.Ma il punto non è solo o soprattutto la cultura musicale dei PCLM e la loro preparazione sui grandi dischi del passato: quanto la loro padronanza della struttura canzone, dei cambi, delle atmosfere. Senza di essa, sarebbe vano tentare di articolare uno strumentale lungo e complesso come “Western Civilization”, in cui nulla è fuori posto o in anticipo rispetto al dovuto; o a una ballata peregrina come “Long time gone”, che attende due minuti buoni prima di concedersi di aprire il suono. Il punto vero è questo amalgama che, se all’inizio ti porta a pensare che questi sedicenti modenesi siano in realtà tre inglesi chiusi in un rifugio antiatomico nei giorni dei 24 Hours Technicolor Dreams e liberati solo ora, dopo un paio di ascolti trascende la filologia per dare il primato assoluto alla scrittura.Dovrebbe essere un fatto scontato ma non lo è, perchè sono in pochi ad avere il talento per permetterselo. E poi ciò che conta di questi tempi non sono le canzoni che scrivi, ma quanti supporters hai su Faccialibro. A proposito, mentre scrivevo, quelli dei Pip Carter Lighter Maker sono saliti a tre. Ma voi non state lì troppo a contare, impiegate bene il vostro tempo libero ascoltando questi ragazzi. Per quanto mi riguarda, sono una delle scoperte dell’anno.)

 

Silvio Bernardi (ROCK IT)

Recensione I See You By My Side

30/01/2013

 

 

 

Riassunto delle puntate precedenti: a metà dell'anno scorso arriva a Rockit, e da lì alla mia scrivania, la discografia - ben quattro album - di tali Pip Carter Lighter Maker, da Maranello. Nè la redazione nè io li conosciamo, benchè siano in giro da diversi anni e abbiano suonato anche all'estero. Sulla Rete, pochissime informazioni in più: una recensione in tutto e una pagina fan su Facebook con (allora) due soli iscritti. La musica dei PCLM, però, parla da sola: l'album "Western civilization" mi fa quasi saltare dalla sedia dopo il primo ascolto.

Soprattutto in un momento in cui il termine "psichedelia" sembra essere tornato di moda per indicare il tutto e il niente, e dai gruppi hard rock a quelli elettronici nessuno si fa mancare la magica parolina all'interno della scheda stampa o a latere del proprio genere principale, e se gli citi i gruppi che hanno creato quel suono - Pink Floyd esclusi, che anche mia nonna sa a memoria i loro pezzi- ti guardano con tanto d'occhi.

Ecco, dunque, i Pip Carter Lighter Maker sono un vero gruppo psichedelico, che conosce alla perfezione il genere (tanto di sponda inglese, la loro prediletta, quanto americana) e che ha studiato fino al minimo dettaglio il suono in questione ed è riuscito a riprodurlo e reinterpretarlo. Il risultato è una band che, pur in economia di mezzi, riesce ad avvolgerti col sound di un'epoca che fu (e che, per alcuni, non ha mai avuto ragioni per smettere di essere). E che ricorda tutto fuorchè rock casareccio ala bolonnaise: mio fratello, ad esempio, che sulla musica ha la puzza sotto il naso molto peggio di me, li accosta, con le dovute proporzioni, alla Chocolate Watchband.

Questo nuovo capitolo della saga PCLM prosegue così sulle tracce del precedente "Western Civilization", rinvigorendo ulteriormente l'approccio in virtù della resa dal vivo ("Start to sleep", "Morning light"), senza rinunciare agli antichi amori, come le atmosfere alla Sergio Leone ("The Sailor", ideale continuazione di quella "Italian song 69" che non mi è uscita dalla testa per giorni e giorni) e gli Stones di fine Sessanta (il blues "rivisto" di "Full of rain"), riuscendo anche a farli incontrare, davanti a uno sciamanico "Storyteller".

E riesce al contempo ad addentrarsi in territori ancor più tenebrosi e avvolgenti (con l'hammond di "Move your mind" e le psychotic reactions di "I see you by my side"), e a sfoderare singoli da urlo come "People" e la stessa title-track. Singoli da urlo, ovviamente, per il 1967. Ma provate a cercare quali dischi sono usciti in quell'anno e confrontateli con quelli del 2012. Capirete perchè non riesco a smettere di ascoltare i Pip Carter Lighter Maker.

 

Silvio Bernardi  (ROCK IT)

Pip Carter Lighter Maker – I See You By My Side

 

 

Un nuovo lavoro della nostra vecchia conoscenza Pip Carter Lighter Maker, che zitti zitti se ne escono con un altro cd-r autoprodotto veramente notevole. La loro anima è sempre più colorata di Sixties pop e psichedelia, con tinte garagistiche (mai troppo violente): il songwriting è da paura, così come l’approccio fedele a sonorità e stilemi d’epoca.
Alcuni dei brani di questo nuovo lavoro non sfigurerebbero in una raccolta di pezzi vintage e sarebbe difficile cogliere la differenza – forse li tradirebbe la qualità sonora, ma giusto quella e solo in maniera percepibile da orecchi attenti.

Rispetto ai lavori precedenti mi par di notare un approccio più duro e meno lisergico – e non è necessariamente un difetto, anzi. Diciamo che in generale suonano leggermente meno barrettiani/floydiani e un filo più r&b (nell’accezione più urticante da British invasion), con qualche rave-up chitarristico quasi in odor di freakbeat pesante. Certo, poi c’è la ballata psicotropa “Move Your Mind” a contraddire quanto appena scritto… ma ci siamo capiti.

Trovo interessante come i PCLM mescolino con una certa disinvoltura suggestioni sulla carta poco conciliabili, ossia la tradizione British (per fortuna senza sconfinare nell’odiato – da me – britpop) e quella statunitense, ad esempio in brani come “Morning Light” che sa di Carnaby Street e di Los Angeles al contempo. Bravi davvero… l’unica critica che posso muovere, per il gusto di dirne sempre una di troppo, è forse la pulizia e la patina leggermente troppo lucente della produzione. Per il resto, tanto di cappello.

 

 

Andrea Valentini (BLACK MILK MAGAZINE)

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